Folkevise – La ballata mediovale scandinava

Folkevise (o ballata popolare) ebbe nel Medioevo ampia diffusione in tutta la Scandinavia. Il centro di più antica adozione e irradiazione della ballata fu la Danimarca che nel XIII. secolo ebbe una fiorente produzione di folkeviser ispirate alla tradizione francese. Alla base vi sono influenze provenienti dalla Germania, dall’Inghilterra e dalla Francia, appunto: in particolar modo in Scandinavia si è fusa la materia epico-eroica, propriamente nordica, con i ritmi delle caroles francesi (canzoni da ballo francesi).

Hjertebogen 1550, conservato presso la Biblioteca Nazionale Reale

Hjertebogen 1550, conservato presso la Biblioteca Nazionale Reale

La maggior parte delle Folkeviser risalgono al 1250-1300 e rimasero in auge fino al 1600, quando passarono di moda negli ambienti cittadini benestanti. Il Romaticismo (XIX sec.) – nella sua costante ricerca del primordiale e genuino spirito popolare – riportò alla ribalta questo modello ”lirico”, nonché il recupero e le raccolte dei testi e delle musiche originali. Il più importante raccoglitore e classificatore di ballate è stato il danese Svend Hersleb Grundtvig (9. sett. 1824 – 14. lug. 1883). Dalla Danimarca ci sono pervenute 539 ballate e canti popolari medievali, un numero considerevole nel panorama letterario europeo.

L’esemplare più antico è un frammento del 1320, Drømte mig en drøm i nat, il cui nucleo principale fu trascritto nel XVI sec. da nobildonne e monache che amavano trascrivere le ballate fino ad allora tramandate oralmente. La prima vera raccolta – Hundredvisebogen – è del 1591 ad opera del prete Anders Sørensen Vedel, un esempio unico nel Nord Europa e importante punto di riferimento anche per la ricerca sulle ballate norvegesi. Infatti, nel 1695 il prete e linguista Peder Syv pubblicò una riedizione della raccolta di Vedel con l’aggiunta di cento nuove ballate dal titolo Kæmpevisebogen. Questa raccolta fu molto popolare e riscontrò successo in Norvegia e nelle Isole Færøer.

Durante il Romanticismo, le ballate danesi durono tradotte in Germania da Johann Gottfried von Herder e da qui Johann Wolfgang von Goethe trasse ispirazione per la sua composizione Der Erlkönig (Il re Elfo del 1782).

I temi delle ballate

Vi è una grande varietà tematica e ritmica nelle folkeviser. Alcuni sono canti ”storici” che riferiscono di fatti e vicende storiche amplificate dalla narrazione; altre sono di evidente ispirazione eroico-cavalleresca; molte hanno l’impronta magico-religiosa; altri sono canti d’amore e infine diverse ballate sono di carattere satirico e burlesco (in particolar modo critiche sui costumi degli ecclesiastici). Si tratta di uno dei patrimoni culturali e folclorici più ricchi al mondo.

In Norvegia, la folkevise – variamente rielaborata – è stata per lungo tempo l’unica fonte di espressione culturale di tipo ”non ufficiale”, durante il periodo di dominio danese.

Struttura della folkevise

Nella sua forma più comune, la folkevise è un componimento strofico-narrativo, le cui versioni più antiche si compongono di due versi a rima baciata congiungente mascolina con tre o quattro accenti ritmici, mentre quelle più ”recenti” si compongono di 4 versi dove il secondo e il quarto verso rimano. Le ballate hanno sempre un ritornello che poteva essere un ammonimento o una sorta di morale. La struttura di base prevede la presentazione dei protagonisti attraverso scene e dialoghi che costituiscono il punto di partenza della vicenda.

Il capofila cantava varie strofe e gli altri danzatori ripetevano in coro il ritornello che aveva una propria melodia e serviva per legare musicalmente e icasticamente l’intero componimento.

Le ballate del Medioevo scandinavo venivano eseguite principlamente per intrattenere la gente durante una festa o in un particolare momento di condivisione colletiva. Non ci sono pervenute particolari indicazioni sull’esecuzione delle danze abbinate ai canti, però è quasi certo che vi fossero delle ”coreografie” abbinate alla narrazione musicale.

I canti sono al presente, vale a dire che si cantavano come se la vicenda si svolgesse in quel luogo e in quel momento, per questo era importante anche la rappresentazione coreografica, per imprimere un’esperienza psicologicamente incisiva sull’assemblea presente e per facilitarne la memorizzazione.

La durata dell’esecuzione variava a seconda della ballata e della situazione; vi era comunque una differenza di tempi di esecuzione tra le ballate danzate e le ballate solo cantate, inoltre, ogni cantore aveva il suo modus espressivo. Ciò che si è potuto constatare è che le ballate nordiche avevano raggiunto un tale livello di maestria che gli esecutori non potevano essere che dei ”professionisti”, inoltre, i contenuti epici, eroici e morali rispecchiavano i gusti del pubblico che si rivelava dunque raffinato e di nobile estrazione.

Gli artisti come si è detto erano dei musicisti e dei ballerini ”professionisti” e girovaghi, anche se provenivano da una realtà contadina o nobile, abitavano comunque nelle periferie e ai margini della società. Spesso le donne erano le cantastorie, mentre i musicisti erano uomini, ma è certo che entrambi – uomini e donne – collaboravano alla stesura dei testi; non è da escludere che i ”cantastorie” come gli ”scaldi”, i menestrelli e i poeti di corte dimorassero spesso presso le corti dei principi e dei potestà.

La capacità dei norvegesi e degli scandinavi, in genere, di preservare le proprie tradizioni è tale che ancora oggi esistono gruppi folkloristici che, soprattutto nei periodi estivi, eseguono delle verie e proprie ricostruzioni storiche di villaggi, episodi storici (come le battaglie), spettacoli dell’epoca vichinga e post vichinga (come nel video seguente)

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Il Signorotto

di Johan Hermann Wessel

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

Una volta un signorotto s’addormentò nell’eterno riposo

Così come per tutti i signorotti è doveroso,

sebbene vorrebbero volentieri a lungo vivere

ed è un pessim giacere

quando si è di contrar parere.

Questo signorotto di cui vi canto

Poverino!, dopo la morte, d’incanto

Si ritrovò in quel luogo che freddo non è mai

Sebbene lo si desideri, eh son guai

Quando non si desidera non aver freddo mai!

Lì incontrò il suo cocchiere e si stupì

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

« Cosa?! Anche tu Jochum in inferno stai?

Non lo avrei mai immaginato!»

Ed è un peccato

Vedere ciò che si è sempre rinnegato.

«Il perché io sia finito qui,

tu senza dubbio già lo sai,

sebbene invano lo volevo nascondere»

e non è un piacere

voler – le cose risapute – nascondere.

«Mio figlio si diede al gioco e al sesso

E sperperò spesso

Più di quanto il mio patrimonio potesse sopportare».

Ed è male tollerare

Ciò che più non si può sopportare.

«Bontà verso quel figlio mascalzone dimostrai

E i miei contadini dissanguai.

Il loro patire non volli sentire».

Ed è da maledire

Chi – il lamento dei contadini – non vuol sentire.

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

«Ma tu, che così mite e buono fosti

e mai alcun male a creatura umana facesti,

perché sei qui? Lo vorrei sapere»

E c’è da temere

nel voler troppo sapere.

«Mi è andata male» fu la risposta

« poiché in vita feci apposta

ciò che Voi non riuscivate a fare, nonostante il desiderio»

Ed è un gran guaio

Non poter assecondare il desiderio.

«Quel figlio che è la causa di questa vostra attuale dimora

Ve lo procurai io allora,

non volendo nulla – alla vostra signora – negare »

e non è un buon affare

mai nulla negare.

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

Pertanto, ogni mascalzone impari

A non procurar ad altrui bambini vari

Nonostante la moglie altrui lo voglia.

E non è una gioia

Saper che la moglie altrui lo voglia.

Testo originale/opprinnelig tekst:

En Herremand sov engang hen;/Og saa skal alle Herremænd,/Hvor gierne de end leve ville./Og det er ilde,/At døe, naar man endnu ei vilde.//

Den Herremand, jeg synger om,/ Did, Stakkel!/efter Døden kom,/Hvor ingen frøs, skiønt alle vilde./Og det er ilde,/At ikke fryse, naar man vilde.//

Han traf sin Kudsk, og studsede:/«Hvad! Jochum og i Helvede?/Jeg næsten det forsværge vilde.»/Og det er ilde,/ At see, hvad man forsværge vilde.//

«Hvorfor jeg kommen er herned,/Du udentvivl alt forud veed,/ Saa jeg omsonst det dølge vilde.»/ Og det er ilde,/Bekiendte Ting at dølge ville.//

«Min Søn forfaldt til Hoer og Spil,/Og satte flere Penge til,/End min Formue taale vilde.»/Og det er ilde,/At den ei mere taale vilde.//

«Af Godhed for det Skumpelskud/Jeg sued’ mine Bønder ud,/Og deres Suk ei høre vilde.»/Og det er ilde,/Ei Bønders Suk at høre ville.//

«Men du, som var saa from og god,/Og giorde intet Kræ imod,/Hvi du er her, jeg vide vilde.»/Og det er ilde,/Saa nøie alt at vide ville.//

«Det gaaer,» var Svaret, «mig saa slet,/Fordi jeg hisset giorde det,/Som I ei kunde, skiønt I vilde.»/Og det er ilde,/At ikke kunne, naar man vilde.//

«Den Søn, som volder, I er her,/Har jeg paa Halsen skaffet jer./Jeg Fruen intet negte vilde.»/Og det er ilde,/Slet ingen Ting at negte ville.//

Sligt lærer hvert utugtigt Skarn,/At ikke skaffe Næsten Barn,/Skiønt Næstens Kone gierne vilde./Og det er ilde,/ At Næstens Kone gierne vilde.

© traduzione Annalisa Maurantonio

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La felicità

Lyksalighed

Lad Andre tænke, sige,
Guld giør os lykkelige;

Jeg fandt mit Himmerige,
i dit Skiød, Min Pige!

Johan Herman Wessel

La felicità

Lasciate che siano gli altri a dire e pensare, per carità

che il denaro fa’ la felicità;

Io, la mia divina prosperità

in te, fanciulla mia, l’ho trovata, oh beltà!

 

© Trad. Annalisa Maurantonio

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Amore, pane e…burro

Kierlighed og Smørrebrød

At Smørrebrød er ikke Mad,

Og Kierlighed er ikke Had,
Det er for Tiden hvad jeg veed
Om Smørrebrød og Kierlighed.

Johan Herman Wessel

Amore e Pane e burro

Che il pane col burro cibo non sia

e l’amore odio non è

è l’unica cosa che io sappia

sul pane col burro e l’amore.

© trad. Annalisa Maurantonio

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Il fabbro e il panettiere

(Smeden og bageren)

 

Di Johan Herman Wessel (trad. Annalisa Maurantonio)

 

In una cittadina, un fabbro abitava

Illustrazione di Theodor Kittelsen (1890)

e diventava pericoloso quando si infuriava.

Egli si fece un nemico (se ne può sempre avere

io non ne ho l’onore

e nemmeno il mio lettore)

E fu sventura parimenti

di incontrarsi in una locanda.

Bevvero (anch’io bevo nella locanda

non ci andrei altrimenti

ma bada bene, lettore,

io vado sempre in quelle d’onore).

Bevvero come ho già detto

e dopo molti insulti e parole a effettoWessel smedbager03.jpg

il fabbro gli sferrò un bel cazzotto,

così violento fu il botto

che quell’altro il giorno non vide più

e da allora non ne vide proprio più.

Subito il fabbro fu arrestato

un medio esaminò l’assassinato

e di morte violenta emise il certificato.

L’assassino confessò dopo esser stato interrogato.

La sua unica speranza era di andar nell’al di là

e trovare il perdono del suo rivale, là.

Ma ascolta! Ora viene il bello! Il giorno stesso

prima che il verdetto fosse emesso,

quattro cittadini si presentarono

al giudice ed il più eloquente

gli parlò convincente:

« O sapiente!

Sappiamo che Lei bada sempre al bene della città,

ma il bene dipende dal fatto che in questa città

dobbiamo riavere il nostro fabbro immantinente.

La sua morte non risveglierebbe certo quel morto!?

Noi non troveremo mai un uomo così capace

e noi pagheremmo tremendamente quel torto

se lui trovasse l’eterna pace. »

« Mio caro amico, rifletta bene! La vita si paga con la vita!»

« Qui vive un panettiere povero e decrepito

e con il diavolo tra breve se ne sarà ito.

Di fornai ne abbiamo due. E se si prendesse il più incartapecorito?

Così una vita sarebbe pagata con un’altra vita! »

Rispose il giudice: « L’idea non è del tutto illecita

Ho bisogno di rimandare la sentenza

poiché il caso è così serio che in coscienza

devo pensare se la vita al nostro fabbro è bene concedere.

Addio, brava gente. Farò tutto ciò che è in mio potere! »

« Addio, sapiente messere! »

Il giudice sfogliò il suo codice accuratamente

Ma non trovò nulla di pertinente

su come giudicare al posto del fabbro un panettiere,

così giunse alla sua conclusione

ed emise la seguente decisione:

(Venga!, chi vuol sentir la soluzione)Wessel smedbager06.jpg

« Si presenti il fabbro Jens

chiamato in giudizio dalla corte

per aver dato morte

ad Anders Pedersen.

Non c’è che un fabbro nel nostro villaggio

ma devo esser privo di ogni vassallaggio,

e sebbene voglia vedervi morto, assai

ma qui due sono i fornai,

perciò questo è il mio giudizio:

il fornaio più anziano dovrà scontare il supplizio

per l’avvenuto assassinio, vita per vita scontata

avrà la punizione meritata

parimenti per l’orrore e per il disgusto reso. »

Il panettiere pianse per la sua anima condannata

quando lo portarono via di peso!

MORALE

Sii sempre pronto per la Morte!

Essa si nasconde dietro tutte le porte.

Testo originale/opprinnelig tekst:

SMEDEN OG BAGEREN.

Der var en liden Bye,/i Byen var en Smed,/Som farlig var,/naar han blev vred./Han sig en Fiende fik; (dem kan man altid faae,/Jeg ingen har, det gaae/Min Læser ligesaa!)/Til Uhæld for dem begge to/De træffes i en Kroe./De drak (jeg selv i Kroe vil drikke;/For andet kommer jeg der ikke./Anmærk dog, Læser! dette:/Jeg immer gaaer paa de honette.)//

Som sagt, de drak,/Og efter mange Skieldsord, hidsigt Snak,/Slaaer Smeden Fienden paa Planeten./Saa stærkt var dette Slag,/At han saae ikke Dag,/Og har ei siden seet’en.//

Strax i Arrest blev Smeden sat./En Feldskiær faaer den Døde fat,/Og om en voldsom Død Attest hensender/Den Mordere forhøres og bekiender./Hans Haab var, at han skulde hisset gaae,/Og der Forladelse af sin Modstander faae./Men hør nu Løier! netop Dagen,/Før Dom skal gaae i Sagen,/Fremtriner fire Borgere For Dommeren;/den mest veltalende Ham saa tiltalede:/”Velviseste! Vi veed, paa Byens Vel De altid see;/Men Byens Vel beroer derpaa,/At vi vor Smed igien maae faae./Hans Død opvækker jo dog ei den Døde?/Vi aldrig faaer igien saa duelig en Mand./For hans Forbrydelse vi alt for grusomt bøde, Om han ei hielpes kan.”//

“Betænk dog, kiere Ven! der Liv for Liv maae bødes.”/”Her boer en arm udlevet Bager,/Som Pokker snart desuden tager./Vi har jo to, om man den ældste tog af dem?/Saa blev jo Liv for Liv betalt.”/”Ja,” sagde Dommeren, “det Indfald var ei galt./Jeg Sagen at opsette nødes;/Thi i saa vigtigt Fald man maae sig vel betænke,/Gid vores Smed jeg Livet kunde skienke!/Farvel godt Folk! jeg giør alt, hvad jeg kan.”/”Farvel velvise Mand!” .

Han bladrer i sin Lov omhyggelig;/Men finder intet der for sig,/Hvorved forbuden er,/for Smed at rette Bager;/Han sin Beslutning tager,/Og saa afsiger denne Dom:/(Hvem, som vil høre den, han kom!)/”Vel er Grovsmeden Jens/For al Undskyldning læns,/Og her for Retten selv bekiendte,/Han Anders Pedersen til Evigheden sendte;/Men da i vores Bye en Smed vi ikkun have,/Jeg maatte være reent af Lave,/Ifald jeg vilde see ham død./Men her er to, som bager Brød.” /”Thi kiender jeg for Ret:/Den aeldste Bager skal undgielde det,/Og for det skedte Mord med Liv for Liv bør bøde,/Til velfortiente Straf for sig Og ligesindede til/Afskye og til Skræk.” /Den Bager græd Guds jammerlig,/Da man ham førte væk.//

Moral: Beredt til Døden altid vær!/Den kommer, naar du mindst den tænker nær.

 

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Johan Herman Wessel

Johan Herman Wessel (6 ottobre 1742, Vestby nell’Akershus, – 29 dicembre 1785 Copenaghen) scrittore e poeta norvegese, soprattutto di commedie. Le più importanti sono Kiærlighet uden Strømper (Amore senza i calzini) e Comiske Fortællinger (Racconti comici), nonché barzellette e aneddoti comici in versi.

Johan Herman Wessel era figlio di un pastore protestante e fratello maggiore di Caspar Wessel, matematico e linguista dano-norvegese. Il padre era nipote dell’eroe ed esploratore Peter Tordenskjold Wessel. Nel 1761, fu trasferito dalla Scuola di Latino a Christiania (attuale Oslo) all’Università di Copenaghen per i suoi studi. A Copenaghen, Wessel non diede mai un esame e si guadagnava da vivere come insegnante privato e letterato, traducendo opere di teatro e come redattore del giornale satirico Votre Serviteur otiosis.

Wessel fondò e diresse Det Norske Selskab nel 1772, e ne fu uno dei pilastri. Det Norske Selskab nacque come una comitiva di gaudenti studenti norvegesi residenti a Copenaghen e che si riunivano al Café di Madam Juel in Læderstræde. Si riunivano e raccontavano del proprio paese attraverso racconti satirici, barzellette e canti. Ma discutevano anche di arte e politica ed erano particolarmente interessati alla giustizia e alla democrazia. La saggezza del contadino norvegese e la natura norvegese erano i temi preferiti in un periodo in cui la grandezza del passato medievale in Norvegia stava tornando di moda. Il circolo degli studenti arrivò a contare 100 iscritti e molti tentarono la strada per diventare scrittori. Ma purtroppo la maggior parte di loro non erano né bravi studenti né buoni scrittori. La cosa migliore che sapevano fare era brindare alla loro natìa Norvegia con l’inno Kiæmpers Fødeland (Patria di combattenti), un canto che uno dei promotori del circolo, Johan Nordahl Brun, aveva scritto in onore della propria patria. Molti dei membri del circolo, poco per volta, rientrarono in Norvegia, mentre Johan Herman Wessel rimase a Copenaghen.

Le sue opere

Uno dei racconti comici di Wessel più famosi è Herremanden (Il Signorotto). Si racconta di un possidente che dopo la morte finisce all’inferno per colpa del figlio che ha dissipato tutti i suoi averi nel gioco e con le donne. Il signorotto per rimediare alle perdite finanziare fu ”costretto” a fare lo strozzino e tartassare i suoi contadini, ragion per cui si è guadagnato l’inferno. Ma nell’al di là infernale incontra con sua grande sorpresa il cocchiere Jochum il quale gli racconta di trovarsi all’inferno per essere stato adultero ed essersi messo con la moglie del signorotto e di essere il vero padre di quel figlio spendaccione e donnaiolo per colpa del quale il signorotto era finito all’inferno.

L’opera più significativa di Wessel è Kiærlighet uden Strømper (Amore senza i calzini del 1772), una parodia dei drammi d’amore e una satira del dramma francese pseudo-classico. La commedia fu un successo e fece di Wessel uno degli scrittori più famosi. Fu rappresentata per la prima volta nel 1772 e da allora continua ad essere messa in scena anche oggi.

Un’altra opera teatrale è Anno 7603 del 1781. Si tratta di un’opera meno nota e meno rappresentata e ha un minor valore artistico, ma ha ottenuto un suo particolare status ”cult” negli ambiti di science fiction, dal momento che si ritiene essere il primo esemplare letterario al mondo di un racconto di un viaggio nel tempo: i due protagonisti, Leandro e Julie, vengono catapultati nel futuro da una maga e si ritrovano nell’anno domini 7603, un mondo in cui i ruoli tra uomini e donne sono capovolti e solo le donne possono fare il militare.

Tra le poesie comiche, la più nota è Smeden og Bageren (Il Fabbro e il Fornaio – un fabbro accusato di omicidio viene salvato in quanto è l’unico fabbro del villaggio e la colpa viene fatta ricadere su un povero fornaio…perché di fornai il villaggio ne ha due e, in fondo, ne può bastare uno solo); si ricordano anche Hundemordet (L’assasinio del cane – una futile lite che finisce in tragedia), Gaffelen (La Forchetta) e tutta una serie di “mottetti” e adagi tuttora ricordati e utilizzati da norvegesi e danesi.

Wessel si è cimentato anche come scrittore di cose ”serie”, come le odi al sonno e alla modestia. Subito dopo Ludvig Holberg, Wessel è uno degli scrittori norvegesi più noti nella letteratura mondiale. Wessels plass, la piazza del Parlamento di Oslo, fu intitolata a lui nel 1891. Wessels gate nel quartiere di Meyerløkka a Oslo prende il nome da lui.

La sua abitazione a Vestby è tuttora custodita ed è di proprietà del Comune.

Wessel fu tanto arguto da scrivere il suo stesso epitaffio:

Han aad og drak, var aldrig glad

Hans Støvlehæle gik han skieve.

Han ingen Ting bestille gad.

Tilsidst han gad ei heller leve.

(Mangiò e bevve, non fu felice mai

Non cambiò mai i tacchi dei suoi stivali

Nulla desiderò per sé stesso, mai

Tanto da dar via, al fin, i suoi resti mortali.)

Riuniti a Sværtegade nr 7, Det Norske Selskab venne a conoscenza di un appello pubblicato sulll’Adresseavisen di aiutare un povero «che non ha nulla, neanche per coprirsi le pudenda». Fu una cosa che Wessel non poteva non lasciare inosservata e che commentò in rima così:

O, kommer og redder
mig arme Per Skrædder
som ikke kan skjule
for himmelens fugle
den lille Guds gave
jeg fikk på min mave.

(Oh, venite a salvare

povero me, Per il Sarto,

che non può celare

per divin “parto”

quel minuscolo dono di Dio

che c’è sotto al ventre mio)

Dedicati alla moglie sono i seguenti versi che Wessel scrisse nell’osteria di Løvstræde insieme ai suoi amici:

Du, som for din og min Plaseer
og hidindtil for intet meer
hos mig har sovet.
Dig, som jeg svor en evig Troe
og jævnlig afbrudt Natteroe
for Præst har lovet –
– dig giør jeg vitterligt, min Mo’er
at jeg ei spiser ved dit Bord
for denne Sinde.

(Tu che per il tuo e il mio piacere

– e finora per null’altro dovere –

Hai dormito al mio fianco

A te, alla quale ho giurato eterna fedeltà

E sovente interrotto la notturna tranquillità

al Prete ho promesso financo

–         a te rendo pubblicamente, mia diavola

di non mangiare alla tua tavola

per questo peccato)

Wessel morì a Copenaghen e fu sepolto nella Trinitatis kirke (Chiesa della Trinità). La tomba in seguito scomparve, ma fu sostituita da due simboli commemorativi: un monumento comune con Johannes Ewald ed una statua di Wessel del 1879 eseguita dallo scultore Otto Evens.

Autografo di Johan Herman Wessel. Un biglietto indirizzato al direttore d’orchestra del teatro Warnstedt, riguardo una traduzione del testo in due atti di Monvel, il brano cantato “De tre Forpagtere” eseguito per la prima volta il 30 ottobre 1780

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Epistola concernente il serpente marino (ophis archaios)

Tratto da “Nye Epistler” del 1912 di Nils Kjær

Non si parla ancora del serpente marino. Non si è fatto vedere per tutto questo caldo e torrido mese, sebbene questa è solita essere la sua stagione ideale. Non gli è stata mai una volta dedicata una notizia sui giornali, sul dove e come trascorre l’estate, e ciò – a poco a poco – compromette la sua fama.

Il serpente marino si è ritirato sul serio? Ha rinunciato al suo antico svago dei giorni di canicola: manifestarsi a testimoni credibili e prendere in giro la scienza? Non so come gli altri valutino la questione, ma non nascondo che, personalmente, il serpente marino mi ha deluso quest’anno. Non c’è estate vera senza serpente marino. E per estate vera intendo una lunga serie di straordinari giorni di sole, con il fiordo piatto e il caldo persistente, giorni i cui secondi, come innumerevoli punti di beatitudine, scorrono insieme verso un’unica dorata estensione di tempo immobile, giorni che abbondano di oziosi momenti e nella loro monotonia si cancellano spensierati dalla nostra memoria…un grande tonfo del serpente marino, in un tale giorno d’estate, è proprio quello di cui aneliamo. Esso scioglie l’incantesimo vegetativo della nostra mente e lega gli occhi ai cerchi d’acqua, che si accrescono sempre più, propagandosi dal punto di origine, prima che ci sia uno scoppio di urla di panico nell’ora meridiana.

Ma il serpente marino è un mostro capriccioso. Non ha la minima intenzione di lasciare la sua interessante carcassa in qualche museo. Emerge dal mare e sparisce nuovamente senza lasciare tracce e quando gli passa per la testa di lasciarsi vedere, accade all’improvviso, senza avvertire e prima che si riesca a convocare un comitato di professori. Si comporta in modo così canzonatorio e irriverente nei confronti degli zoologi, come l’anima nei confronti dei moderni psicologi: mentre questi ultimi siedono e sperimentano, di qua e di là, e faticosamente misurano i sentimenti nei loro laboratori, l’anima si tiene sempre alla larga e se ne va a spasso tra i poeti e i visionari, impassibile di fronte a quella situazione critica per la quale l’esistenza della stessa o non viene messa in dubbio o viene negata dagli esperti. Neanche al serpente marino fa’ impressione il fatto che la sua solida esistenza venga messa in dubbio dai dotti. Il mostro non ha bisogno di legittimarsi come un membro ordinario del regno animale, con tavola genealogica e nome latino. Si prende gioco dell’università e proprio nell’anno del giubileo, quando ogni forza vivente si infervora per sostenere la propria patria scienza[1].

Il mostro vive sul fondo e ha la casa nelle viscere dell’oceano, contorce il suo gigantesco corpo tra gli antri nascosti degli abissi, e nella fosforescenza del suo occhio cieco, baluginano dal profondo pallide paure. Se esercita un’inspiegabile spinta verso la superficie, accade quando – punto da potenti ondate di sole – si agita nell’oscurità profonda oppure quando la sua indolenza viene irritata. Quando il serpente marino si muove, allora viene rigurgitato dal baratro degli abissi e solleva la sua mostruosa testa, con le alghe per capelli, sul pelo dell’acqua, mentre i raggi di sole scintillano sul suo squamoso corpo serpeggiante e il mare viene frullato dalla sua coda. Come testimoni della sua esistenza prende al massimo un paio di pescatori creduloni, che remano per salvarsi la vita fino alla riva e affidano ai propri contemporanei un’audace descrizione della terrificante creatura.

Ma questa descrizione non è esatta, dichiarano i “professoribus”. Apparteneva aii pesci con scheletro cartilagineo o osseo? Aveva la bocca sotto il mento come lo squalo, e dove era propriamente collocata la pinna anale? Respirava palesemente con le branchie e partoriva i piccoli già formati? I testimoni non sanno cosa rispondere e si crea una lacuna nella loro credibilità, alla quale non verrà mai posto rimedio. Nel migliore dei casi, di conseguenza, vengono considerati dei tipi originali. Una volta conobbi un uomo che andò in rovina e che finì i suoi giorni con la cassa di assistenza ai bisognosi solo perché aveva visto il serpente marino. Ma la sua descrizione dell’aspetto del mostro poteva ben competere con le fantastiche deformità delle figure dell’apocalissi: « Era gigantesco come una canna di una sega a vapore », raccontò « E la testa come quella di un rospo. E ridacchiava con la sua boccaccia e aveva le zanne come le corna di un bue. Sulla lingua si trovano i denti pigiati e in fila come quelli di un erpice. E il suo occhio era come una medusa rosso sotto un groviglio di alghe. Rizzava il pelo e il pelo era irto di pezzi di ghiaccio, tanto era freddo laggiù sul fondo…» – « Ero sulla riva del mare », scriveva Giovanni da Patos « e vidi una bestia feroce emergere dal mare. Aveva dieci corna e sette teste e sulle sue corna dieci diademi. E la bestia era come un leopardo nell’aspetto e le sue zampe erano come quelle dell’orso e le sue fauci come quelle del leone ».

A chi credere ora? Certo, non c’è un’eccessiva differenza. Se il mio pescatore avesse avuto la conoscenza di diademi e leopardi, avrebbe a mala pena tratto le sue metafore dalle corna del bue e dalle punte degli erpici. Ma questa concitata serie di avvistamenti, che man mano si dispongono secondo un certo ordine nella fantasia, è certo solo un’arbitraria interpretazione dell’inspiegabile angoscia: l’uomo solitario che si trova dinanzi alla eterna sorprendente natura. “Non fissare a lungo”, dice l’oceano, dicono i boschi “altrimenti ti rivelo il mio volto” e Pan fa’ una smorfia cosicché il girovago solitario viene colto da una paura mortale.

È fuor di dubbio che un uomo che non ha mai visto il serpente marino avrà di gran lunga molte più condizioni favorevoli ad avere successo come naturalista, rispetto a uno che, invece, lo ha visto. Ed è ugualmente fuori di dubbio che uno psicologo – che personalmente non ha mai conosciuto la sua o l’altrui anima – a lungo andare, trarrà maggior profitto dalla psicologia rispetto ad un visionario per il quale la realtà dell’anima è il primo tra gli assiomi. Ma non di meno, vorrei osare di supporre che colui il quale ha visto il serpente marino sappia qualcosa di natura che i dotti neanche se lo sognano. Costui ha vissuto qualcosa con il quale quelli non potranno mai avere a che fare; costui è giunto sulla riva si un’isola che la scienza non  potraà mai giungere a considerare se non come un vuoto miraggio.

Io stesso non mi sono mai potuto rassegnare a rifiutare il serpente marino. Tra le, più o meno, lontane rovine della mia credulità infantile, il mostro marino non è mai stato una sicura scappatoia, qualora accertato il suo credito, doveva essere sciupato dai diversi modi di pensare. Tutta la sprezzante scienza dice che mi rimbalza sul lato notturno del mio essere. Ma certo ho rinunciato a combattere la battaglia per la sua – del mostro – esistenza, per esempio scattandogli una foto.

Questo è ciò che i gesuiti o altri teologi chiamano pia fraus e che consiste nel servirsi di un piccolo trucco per sostenere una preziosa verità. In un mondo in cui si è circondati da tutte le parti da scettici e agnostici, una cosa del genere non dovrebbe essere inammissibile. Quando gli spiritisti si sono persuasi che lo spirito dei morti, sotto circostanze favorevoli, riesce a materializzarsi, per loro diventa abbastanza facile estendere questa convinzione a individui influenzabili in una stanza buia e gravida di spiriti. Ma il mondo scettico dichiara, senza ulteriori apparizioni di spiriti, che si tratta di visioni soggettive, e qui stanno gli spiritisti! Per contro, fotografano una donna anemica avvolta in una veste drappeggiata impregnata di fosforo, cosicché la scienza stessa deve cominciare ad agire e si solleva la discussione e molti possono essere indotti al riconoscimento di un mondo soprasensibile.

Incoraggiato da questo esempio, una volta proposi ad uno dei miei amici pittori di disegnare il serpente marino in base al mio ricordo e di inserirlo in uno scorcio tra i fiordi, che in seguito avremmo fotografato, dopodichè avremmo spedito il dipinto agli esperti. Se la fotografia non fosse stata dichiarata autentica presso qualche facoltà, avrei avuto comunque una bella illustrazione per questa breve epistola. Ma l’idea è stata mandata all’aria per mancanza di una macchina fotografica.

E per finire, vorrei raccontare una storia che sentii, a suo tempo, da un pio uomo della bianca Mogador, dove ogni sorta di favola fantastica si gode in silenzioso raccoglimento e il fumo dei narghilé si contorce in fluttuanti immagini di spiriti sull’immobilità delle nostre gambe incrociate. Riuscii ad avere tutto ciò per un soldo d’argento e lo cito qui senza commenti: C’era una volta un mostro marino che aveva vissuto a lungo in una buca sotto la costa di Lanzarote ed era completamente deperito per via di una alimentazione povera. Nei lontani giorni pagani, si era nutrito abbondantemente degli stregoni del posto, i quali venivano buttati in mare ogni volta che le loro previsioni atmosferiche non si rivelavano esatte. Ora, invece, viveva solo di sama e di bambini che si facevano il bagno, ma per il suo benessere aveva bisogno, ogni anno, di un sacerdote grasso. Ma i sacerdoti non si facevano mai il bagno presso quell’isola, né in nessun altro luogo, e il mostro deperiva, mentre i sacerdoti a suo dispetto, ingrassavano in quella terra povera e arida. Perciò alla fine, il mostro voltò le spalle all’incredulità e nuotò fino al Maghreb. Lì si adagiò nei pressi della spiaggia e aspetto i fedeli. Un giorno giunse sulla spiaggia un povero pescatore, fece la sua preghiera, lanciò la rete in mare e catturò il mostro marino, il quale si era talmente rattrappito a causa della fame che assomigliava, in tutto e per tutto, a un comune polipo. Il pescatore portò la sua preda al mercato e la vendette a un ricco commerciante. Ora, accadde che quello stesso commerciante aveva appena fatto visita a un saggio che proveniva dalla lontana Tetuan, e quando il saggio riuscì a vedere il mostro dichiarò che si trattava di una bestia rara e sacra, che non si poteva mangiare per nessun motivo. Tutta l’ignorante Mogador lo derise, ma il saggio impose la sua volontà e portò il mostro con sé in una conca con acqua salata e si diresse a Fez per regalare la meraviglia al sole della fede. Ma lungo la strada, la sua carovana fu assalita dai predoni e quando i banditi scoprirono il mostro, costrinsero, con la tortura, il saggio a divorarlo vivo, dopodichè gli tagliarono un orecchio e lo sciarono correre senza ingiuriare oltre la sua persona. Ma il mostro aveva previsto tutto ciò e la sua cattiveria si ringalluzzì nello stomaco del saggio. Andò così che scambiò la sua anima con quella del saggio, la cui propria anima originaria lo aveva abbandonato in un soffio. Con l’anima del mostro nel suo corpo, il saggio tornò a Tetuan e sbalordì tutti con la sua scienza. Conosceva tutto, ma aveva dimenticato il Corano e la sua propria anima, e inoltre, negò l’esistenza dei mostri marini. Insegnò che quelli non erano niente altro che polipi e che avevano un sapore migliore mangiati crudi. Ma Allah è grande.

Trad. Annalisa Maurantonio

Serpente marino avvistato da Hans Egede nel 1734 in Groenlandia.


[1] Scritto nel 1911.

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Epistola sull’estetica

Tratto da “ Små epistler ” del 1908 di Nils Kjær

Sto osservando un orticello di carote che potrebbe essere il migliore che abbia mai visto nel suo genere: i verdi ciuffetti sono disposti in file parallele ad uguale distanza, come se fossero stati seminati tenendo uno spago teso e c’è tra le piante uno spazio così grande che le radici possono crescere agevolmente senza doverle spostare durante la crescita. So bene che non esiste un manuale di coltivazione delle carote sui tavoli nelle case della gente. La gente si lascia guidare dal buon senso e dall’esperienza e non commette stupidaggini irrimediabili, anche se si tratta di una cosa così grande come scavare un fosso. Inoltre, sono le ragazzine di 9-11 anni che hanno seminato e disposto queste carote, e non lo hanno mai imparato a scuola. Lì si impara solo l’estetica.

È chiaro che l’istruzione è passata completamente di moda tra gli istruiti. È solo qui in campagna che siamo “arretrati” e che ancora riteniamo un vantaggio il saper leggere e scrivere. I veri cólti mettono la parola “virtù” tra virgolette. L’hanno fatta finita con entrambe e adducono nozioni sotto le spoglie dell’ironia. E sui giornali esibiscono un’autorità dopo l’altra e portano testimonianze contro l’istruzione. Ora, c’è un esploratore antartico che ha notato – per conto suo – che ogni tipo di vita spirituale è superflua; ora c’è una mamma che si  lamenta dell’istruzione pubblica superiore perché i suoi zucconi non riescono a stare dietro al tedesco o alla matematica; ora c’è un pittore che si cruccia per la troppa estetica nelle nostre scuole elementari. Ho meditato su quale tipo di estetica allude. È forse quella esile che si legge nei nostri poeti oppure quella esile della geografia o della storia norvegese? Ma il pittore in questione – che è nazionale fino alla punta delle dita, il cui stile è certamente nazional-decadente e che esige dei modesti presupposti estetici presso il pubblico – può dunque, seriamente, non guardare male all’esile ingenua estetica che aiuta gli abitanti della costa occidentale e quelli della costa orientale, i pescatori e gli addetti alla fluitazione, a sentirsi un popolo che appartiene all’umanità?

Si tratta di una specie di oscurantismo illuminato che attualmente ha il vento in poppa in questa nazione: Sii specialista fin dalla tua tenera infanzia. Murati nella tua professione e guadagna soldi. Evita l’estetica, se non devi vivere di estetica.

Si era abbastanza vicini a un simile ideale, molto tempo fa, quando la cultura dei libri era rinchiusa nei monasteri e la competenza professionale prosperava nei recinti delle corporazioni. E si diceva anche allora: Ciabattino, parla sol del tuo mestiere! Ma il buon ordine è stat spezzato dallo spirito moderno e la cultura dei libri si sprigionò benefica.

L’esperto assoluto, indipendentemente dal suo campo – l’esteta assoluto, non di meno – non è solo il più noioso, il meno allegro, ma anche il più fanaticamente interessato a sé stesso di tutta l’umanità. È certamente utile a sé stesso e agli affari suoi, ma il suo egoismo disciplinare lo rende ingiusto e cieco alle necessità della libera collaborazione degli agenti in una libera società. Non è affatto un buon cittadino. Ricordate gli imprenditori, privilegiati e monopolizzati, della vecchia società oppure pensate ai protezionisti di ogni specie del nostro periodo! Solo noi siamo protetti! Solo noi abbiamo il potere! Noi industriali, noi agrari, noi proibizionisti! Noi, noi – ! la pura formazione professionale crea un settarismo economico e sociale che è egualmente intollerabile di quello religioso. Disgrega la società. L’intelligenza della gente ha bisogno di un sistema di maggese e rotazione tanto quanto la terra. Ma la “rotazione” spirituale è l’istruzione. E si può ben essere istruiti senza essere eruditi, ma non senza – neanche nel nostro tempo – l’istruzione.

Personalmente, l’istruzione è la libera, felice disposizione della proprietà spirituale, della comune educazione popolare, quella proprietà comune di concetti elevati che facilitano i rapporti spirituali.

Aveva ragione quel deputato che diceva che non era divertente alzarsi e pronunciare cose scontate. E del resto, questo non è neanche educato in un paese dove tutti hanno una predilezione nell’oscillare da un estremo all’altro. Ma dal momento che ho preso già una brutta china, una delle più pericolose, vorrei aggiungere un paio di cose “scontate” sulla scuola superiore. Questa non deve preparare degli esperti. Per il semplice motivo che ogni studente, così facendo, deve avere la sua propria classe; non è altresì possibile che si possa presupporre che tutti quelli di uno stesso corso debbano essere adatti alla stessa professione. L’istruzione superiore comune deve servire a fornire delle conoscenze che abbiano un proprio valore per l’individuo in una qualsiasi professione. E dunque, la lingua madre, le scienze naturali, la storia e le lingue straniere. Si deve prendere in considerazione che un uomo appartiene, prima di tutto, alla natura, poi alla civiltà e infine a una determinata nazione. La sua posizione all’interno della società la deve trovare da solo, quando le sue particolari doti sono maturate e gli indicheranno la scelta di una determinata professione. Uno dei più grandi significati educativi è che le materia di insegnamento sono vaste e che per ogni singolo alunno sia prevista un uguale avvicendarsi di materie facili e difficili: a colui il quale la storia e le lingua sembrano divertenti, occorre che, in compenso, fatichi con la matematica. Se ne fosse esonerato, le materie divertenti perderebbero un bel po’ del loro fascino. Così è la natura umana ed è solo l’incompresa tenerezza materna a volere che il proprio ragazzo sia esentato da tutto ciò e che gli vada sempre tutto liscio. Colui che non supera le piccole difficoltà nella scuola etc, etc, etc…

Per molti, quegli anni di studio, dopo restano nella memoria come un periodo di libertà e felicità. Si aveva il primo barlume di ciò che è illuminato, la prima piccola intuizione di ciò che viene preteso come “il sapere”. Una prova di matematica, chiara come il cristallo e più indistruttibile di tutte le montagne; l’irregolarità di un verbo greco, bello come l’infiorescenza di un’orchidea; la rivoluzione di Cromwell – sì, tutto, tutto, tutto estetica.

Estetica! La disciplina sul valore dell’inutile, il valore di ciò che si può vendere e comprare, il valore di ciò che ci rende esseri umani rispetto a qualcos’altro  e che ci fa diventare più che un semplice porto di transito per i nostri viveri.

E per finire, una piccola parola di conforto per questo povero popolo norvegese che non si libera mai dei consiglieri. Vorrei “consigliare” al popolo norvegese di fare con i consigli quello che si fa con le medicine: prendetele, in nome di Dio, pagatele, se proprio va male, ma lasciatele nel cassetto! Ora, si dice, l’unica salvezza è cambiare la lingua: Ascoltate il consiglio, ma non seguitelo! Ora, si dice, tutto si deve rivolgere al bene, basta che i norvegesi ripudino l’alcool: Ascoltate il consiglio, ma badate che è meglio bere un cicchetto da soli piuttosto che arrabbiarsi per un altro che lo fa. Infine, ora, la gente viene sollecitata ad occuparsi, per quanto possibile, alla lettura: sii felice di saper leggere, altrimenti questo buon consiglio ti è sfuggito all’attenzione!

Il popolo norvegese si può paragonare a quell’uomo che si recò in città a cavallo di un asino. Prima lo cavalcò lui stesso. Poi lo lasciò cavalcare al figlio. Alla fine, portarono l’asino in mezzo tra loro due. Nessuno dei consigli funzionò. Ma per fortuna, il popolo norvegese non assomiglia certo a quell’asino d’ uomo che seguiva tutti i consigli.

E questa era solo una parte delle mi considerazioni su un orticello di carote.

© trad. di Annalisa Maurantonio

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Nils kjær

Nils Kjær

Nils Kjær

Nils Kjær (11 settembre 1870 – 9 febbraio 1924), scrittore, saggista e critico letterario norvegese. Kjær fu uno dei primi nella storia della letteratura norvegese a vivere di scrittura senza aver bisogno di un lavoro collaterale per sostenere le finanze. Era un grande frequentatore delle principali caffetterie di Kristiania (attuale Oslo). La cerchia che si formò intorno a Kjær era chiamata dei “post-bohémien”. L’opera più nota di Kjær è il dramma Det lykkelige valg del 1913, una commedia satirica sulla questione linguistica, l’astinenza, il cristianesimo degli oratori e la politica. Kjær è inoltre conosciuto per le sue pungenti epistole, i dialoghi e i racconti di viaggio, nonché una lunga serie di articoli di critica letteraria pubblicati sui principali quotidiani del paese.

Le origini

Nils Kjær nacque a Holmestrand, figlio di Christine Smestad e dello skipper Nils Henrik Kjær, dai quali nacquero anche le sue due sorelle. Il padre morì prematuramente di tisi nella primavera del 1873, di ritorno da un viaggio con la sua nave a Lisbona. La precoce perdita del padre può forse spiegare l’ammirazione di Kjær per le figure maschili particolarmente forti – come per es. Mussolini – e la sua inclinazione alla bisessualità. La famiglia della vedova aveva sufficiente denaro per mantenere Nils Kjær fino agli studi universitari. Nel 1888, era studente presso l’ Hauges Minde, un liceo cristiano a Grünerløkka (quartiere di Oslo), il cui nome si deve alla memoria di Hans Nielsen Hauge, il cui direttore era il noto prete Johan Storjohann. Nils Kjær visse all’interno del collegio fino al 1890, quando conseguì il diploma a pieni voti. Tramite i suoi compagni di studi, entrò in contatto con la gioventù del paese, attiva sul fronte della battaglia linguistica. In seguito, Arne Garborg divenne una figura di riferimento per Kjær.

Linguista e attivista

I primi articoli di Nils Kjær furono pubblicati sul Fedraheimen, un quotidiano fondato proprio da Garborg. Nei suoi giorni da studente liceale, Kjær era un linguista attivista e scrisse – in un articolo del 24 febbraio 1888 indirizzato al consiglio pastorale Elias Blix: «Quando arriverà il tempo in cui la “sua lingua madre” diventerà lingua scolastica e il norreno sarà considerato e citato alla stregua del latino e il norvegese prevarrà sulle lingue romanze?» Era anche un severo critico dell’insegnamento della religione nelle scuole e del catechismo secondo Erik Pontoppidan, che Nils ribattezzò soprannominandolo il «Gamle-Erik (il vecchio Erik)», che è anche il nomignolo che si da’ al demonio. Se solo la gente pensasse da sé, ritiene Kjær che «farebbero saltare in aria tutto il sistema, sia la marcia chiesa di Stato con tutti i suoi preti arricchiti, assetati di potere». Divenne il portavoce per le elezioni amministrative dei lavoratori e difensore dei diritti sociali delle donne. Nel maggio del 1888 pubblicò un articolo sul Fedraheimen riguardo al contributo salariale agli scioperanti, sfidando il Parlamento ad adottare il contributo.

Dopo il capodanno del 1890, Kjær cominciò a scrivere i suoi articoli in riksmål, tra l’altro anche sul quotidiano Social-Demokraten, dove dibatteva aspramente contro il riarmo militare. Riteneva che quei soldi dovessero essere impiegati per alleviare i bisogni dei poveri piuttosto che armare quegli stessi soldati che venivano schierati contro gli scioperanti. Il suo ultimo articolo di protesta fu pubblicato nel marzo del 1890. Il 25 febbraio, quattro studenti – probabilmente dell’istituto Hauges Minde – furono arrestati per disordine pubblico. Presumibilmente uno degli studenti era proprio Kjær, che in quel momento sosteneva lo sciopero degli operai della Christiania Seildugsfabrik ad Akerselven, una fabbrica situata nello stesso quartiere della scuola di Kjær.

Nel racconto breve Smittekilden del 1900, Kjær rappresentò la vita quotidiana all’istituto Hauges Minde, persino l’episodio in cui lo studente Eivind Bjelke fu richiamato dalla direzione della scuola e minacciato di espulsione se non avesse smesso le sue attività radicali. Chiaramente un riferimento autobiografico e la spiegazione per cui Kjær – da quel momento in poi – la fece finita con il suo passato radicale.

Il critico letterario

Caricatura di Nils Kjær eseguita da Henrik Lund

Nel 1890, Kjær terminò i suoi studi. Poco alla volta, prese le distanze dalla battaglia a favore del “neo-norvegese” e da Garborg. Il suo periodo come critico teatrale per il quotidiano Aftenposten del 1909 al 1920, fu una crociata contro il teatro in lingua neonorvegese e non meno con il contributo statale al teatro norvegese. Si scagliò anche contro la “riforma dell’ortografia” del 1917, prevedendo che la declinazione del passato con la terminazione in “a” avrebbe creato solo confusione nel momento in cui si intendeva utilizzare la terminazione in “a” per i sostantivi femminili. Kjær critica la morale sessuale del governo sostenendo che il critico Anders Krogvig dovrebbe astenersi dall’essere “la” consulente del governo seduto come una specie di supereunuco nell’harem di Jørgen Løvland. Kjær descrive la politica linguistica condotta dal primo ministro di sinistra, Løvland, come una norvegesizzazione coatta e bolscevismo linguistico. La questione linguistica non era il solo interesse di Kjær che subì un radicale cambiamento di posizione. La fede cristiana, un tempo tanto criticata, divenne per lui una sorta di rifugio e conforto, mentre prese definitivamente le distanze dalla questione dei diritti delle donne. Di conseguenza si schierò contro gli ebrei come Alfred Dreyfus e Maximilian Harden, e non aveva nulla in contrario verso quel tipo di antisemitismo che risultò nei campi di concentramento, ma anzi, la “borsa ebrea” che era sinonimo del commercio e dell’industria occidentale e che aveva creato una “razza mista” di europei, era per lui una delle “invenzioni dell’umanità più riprovevoli”. Kjær riteneva che la casta ebrea possedesse la stampa. Questo suo astio può aver trovato le sue radici ed è stato alimentato da un antico rancore e contrasto con il letterato danese di religione ebraica, Georg Brandes, che Kjær nel 1892 aveva addirittura auspicato divenisse professore di storia della letteratura presso l’Università di Oslo. Ma nel 1910, ci fu un diverbio nell’ambito del Studentersamfundet di Oslo, e in quella occasione Brandes pubblicamente accusò Kjær di essere talmente ubriaco da non comprendere una sola parola di quello che diceva. Nel 1914, quando Det lykkelige valgfu rappresentato al Nationaltheatret, Brandes criticò aspramente il testo facendo chiare allusioni all’alcolismo di Kjær. In risposta, Kjær pubblicò una serie di articoli in cui prendeva di mira e colpiva Brandes, colui che un tempo ammirava. Il disprezzo di Kjær nei confronti del liberalismo borghese di estrazione ebraica fu, negli anni successivi, tradotto nel timore di una rivoluzione comunista guidata da una regia ebrea.

Durante la prima Guerra mondiale, Kjær – così come Hamsun, Hjalmar Christensen, Tryggve Andersen e Sigurd Bødtker – erano fortemente filo-tedeschi. Le sue opere erano tradotte in tedesco e i suoi drammi erano rappresentati nei teatri tedeschi. Lo scrittore percepiva una sorta di appartenenza alla cultura tedesca e anche dopo la sconfitta tedesca riteneva che la Germania avesse « comunque conservato una leadership spirituale tra le popolazioni » come scrisse in un articolo su Oswald Spengler (Der Untergang des Abendlandes), dove giunge alle stesse conclusioni di Spengler riguardo alla caduta dell’Occidente. Nel 1921, presentò con entusiasmo ai suoi governanti norvegesi, il movimento nascente di Mussolini. Durante un viaggio in Italia, fece le lodi del nascente fascismo: «I comunisti hanno imparato a proprie spese che questa gente non si lascia sottomettere da Mosca, così come non si lascia intimorire dai propri traditori parlamentari.» Tuttavia non avrebbe mai desiderato importare il fascismo o un movimento simile nella propria Norvegia: «sarebbe stata una pessima imitazione». C’era già un uomo forte che desiderava come figura leader, un uomo come Fridtjof Nansen.

Gli ultimi anni di vita

Kjær si ammalò gravemente ai reni. Sua moglie, Margrethe, racconta nella sua biografia i suoi momenti trascorsi al capezzale, dove lei cercava di confortarlo dicendogli che la morte non sarebbe stata una cosa difficile da affrontare per lui che credeva fermamente in Dio. Ma Kjær le rispose: «A dir la verità ho sempre creduto di più nel Cristianesimo degli uomini che in Dio». Infine, Margrethe scoprì che il marito era perseguitato dall’immagine di suo padre – di cui non aveva alcun ricordo nitido – che lo chiamava a sé per pretendere il resoconto della sua vita.

Bibliografia

1895: Essays. Fremmede Forfattere – (Saggi. Scrittori stranieri – saggistica)

1898: Bøger og billeder – (Libri e immagini – saggistica)

1902: Regnskabets dag – (Il giorno del giudizio – dramma)

1903: I Forbigaaende – (En passant – saggistica)

1907: Mimosas hjemkomst – (Il ritorno di Mimosa – dramma)

1907: De evige Savn – (L’eterna nostalgia – novelle)

1908: Smaa Epistler – (Epistolario breve – saggistica)

1912: Nye Epistler – (Nuovo epistolario – saggistica)

1913: Det lykkelige valg – (L’elezione felice – dramma)

1917: For træet er der haab – (Per l’albero c’è speranza – dramma)

1920: Svundne Somre – (Estati svanite – saggistica)

1924: Siste epistler – (Ultimo epistolario – saggistica)

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Caprifoglio

Tratto da “Hvetebrødsdager” (Luna di miele) del 1948” – Johan Borgen

Caprifoglio - Lonicera JaponicaIl ragazzo era rimasto seduto tutto il lungo pomeriggio estivo ad aspettare che accadesse qualcosa. Si era accovacciato dietro un cespuglio di ribes che già da tempo si era stancato di raccogliere. Alle sue spalle spira il Solitario tra i tigli; lassù la brezza del sud aleggia sulla casa, ma le chiome degli alberi sono venerabili e si sfiorano sapientemente: si lasciano accarezzare da una parte, prima di tirarsi su lentamente e aspettare la successiva carezza del mite vento.

Nel giardino c’è calma in ogni filo d’erba, dei calabroni si arrampicano sul bianco trifoglio. Davanti a lui c’è la casa, bianca, grande, piena di segreti. Quando la luce del giorno comincia a diminuire e la parete grigio-bianca assume una tonalità azzurrognola, i segreti iniziano ad uscire. Trapelano dalle finestre che all’improvviso diventano trasparenti come acqua e dalle lucide tegole nere del tetto che arde alla fine della giornata tanto che l’aria tremola al di sopra di esso. Ma soprattutto i segreti trapelano dai caprifogli che emanano il loro profumo inebriante appena l’aria si rinfresca e il sole cala all’orizzonte dietro una nuvola bianco-latte. Quella è anche l’ora del riposo pomeridiano nella casa. Al pied à terre le tende sono tirate, gli altri bambini corrono giù per le scale con i costumi da bagno tra le mani e strillano come gabbiani su un banco di sardine. È quella l’ora dei segreti: quando gli adulti riposano perché p vacanza, quando i pescatori vanno al largo e i pescherecci si allineano in fondo alla baia e le voci,, che si rincorrono da una parte all’altra, si odono da lunghe distanze, quando i bambini e i giovani abbronzati si tuffano dagli scogli e nuotano a stile libero come sommergibili a mezza immersione verso l’orizzonte, per poi adagiarsi tranquilli sulla calda acqua pomeridiana con la pancia in su, come pesci boccheggianti.

Il ragazzo siede accovacciato e aspetta. Poiché nessun altro conosce quell’ora meglio di lui. Almeno ché gli altri non vogliano dormire, pescare, nuotare, gridare. Essi non sanno che le foglie del cespuglio di ribes si piegano dinanzi alla frescura che verrà; non vedono le larve gialle esitare sulla foglia prima di osare il passaggio su un sottile ramo spoglio; non ascoltano il silenzio che incombe prima del mistero e non sentono quel fresco ruscello di ansia e attesa che scorre sotto la pelle di colui che siede accovacciato e aspetta che tutto piombi nel silenzio, affinché tutto possa avere un inizio.

Il vento non spira più sopra le fronde dei tigli, ma sussurra solamente. Su di loro c’è solo il bagliore del sole, solo in cima, non più giù per la collina. È in questo momento che avviene il cambiamento, soprattutto negli odori: il verde odora di verde, dalla casa proviene un olezzo di vernice secca, un odore di pece bruciata proviene dalle ante della cantina, di terra fresca da sotto il cespuglio di ribes, di urina di formiche nel ceppo che fa da zoccolo al tavolo con il ripiano marcio. Ma soprattutto, l’odore del caprifoglio che si arrampica sulla parete, in abbondanza, con i suoi petali che si torcono come le foglie di vetro del lampadario veneziano nel salone, e il suo odore è agrodolce e penetra fin dentro i sensi e una volta – tempo fa – l’odore aveva dato modo al ragazzo di inventare una parola: « dolore ».

Dunque, tutto era tranquillo. Il ragazzo esce dal fresco odore di verde del cespuglio di ribes ed entra in quello del caprifoglio che si inerpica sulla parete di casa. La scia del profumo del caprifoglio è così forte e intensa che è come essere imprigionati in una rete. Sì, è così che si deve sentire un pesce quando la rete lo avvolge senza che quello capisca che le maglie sopra la sua testa si stringeranno su di lui. Il caprifoglio si inerpica lungo un reticolato di asticelle verdi sulla parete della villa. A questo reticolato vengono aggiunte, di anno in anno, altre aste affinché, in futuro, il caprifoglio possa raggiungere il tetto. Non gli manca molto: per il momento ha raggiunto la grondaia sotto la veranda del primo piano. Fin lì arriva l’estremità più lunga del reticolato. Al di sopra di quello ci sono alcuni solitari “musetti” di caprifoglio che annusano incerti l’aria proprio lì dove non hanno più un appoggio. E questa è la méta del ragazzo oggi: andare lassù. Provare ad appendersi alla grondaia sotto la veranda e, in un modo o nell’altro, slanciare una gamba e saltare oltre la veranda dove c’è la finestra aperta della stanza da letto dei genitori. Poi, aspettare lì fino a quando non si fossero alzati dopo il loro riposino pomeridiano e sgattaiolare via alle loro spalle…e aver fatto, così, un’impresa.

Tutto ciò era illecito per il semplice motivo che il reticolato sul quale crescono le piante rampicanti è esile e non adatto alle “scalate”. Quante volte lo avevano colto in quell’insolito divertimento? Quanti metodi avevano provato per farlo desistere: rabbia, minacce, spiegazioni sul rischio, con le buone e con il frustino, fino a potare il caprifoglio affinché non vi si arrampicasse?

Non era indisciplinato lui, e neanche coraggioso. Soffriva di vertigini. Oggi i ragazzi avevano deciso di tuffarsi dal gradino più alto dello scoglio. Aveva buoni motivi per astenersi. Si tuffa a mala pena dal penultimo gradino quando è necessario, ma non da quello più alto. Neanche morto. Ha le vertigini, non può farne a meno. È una vergogna, ma non può farne a meno. Doveva fare un esame, ma doveva essere bocciato affinché non avesse più le vertigini. Aveva fatto un patto con Dio, infatti: avrebbe preferito non superare l’esame a condizione che non avesse più sofferto di vertigini. Ma Dio non ha voluto che fosse bocciato.

Quando la sorellina si ammalò, in inverno, ci fu una grande battaglia interiore in lui: non sapeva se preferire che la sorella guarisse presto e lui continuasse a soffrire di vertigini per l’eternità, oppure che la malattia si prolungasse ancora per una settimana –  e se poi moriva? – ma in cambio non avere mai più le vertigini…

Il ragazzo si arrampicò sui primi quattro quadri del reticolato e subito guardò giù e intorno. Non era molto alto, non raggiungeva neanche la sua altezza. Si arrampicò per altri quattro quadri o raggiunse l’altezza della prima metà della finestra del pied à terre. Allora guardò giù, percepì un piccolo voluttuoso piacere. Il caprifoglio lo accarezzava da tutte le parti e gli dava una vaga, ebbra sensazione di lontananza. Questo era solo l’inizio di ciò che si era prefisso di raggiungere. Le cose accadono a tempo e luogo. Si inerpicò per altri quattro riquadri ed era all’estremità dell’alta finestra del primo piano. Qui il caprifoglio era cresciuto più fitto e doveva cercare con i piedi un posto per non calpestare i fiori e le foglie. Si ritrovò nel mezzo della parete, tra il pied à terre e il primo piano. Le aste di legno su cui poggiava scricchiolavano seccamente e sapeva di una che aveva ceduto al peso. Si spostò di lato e giunse sotto l’angolo della veranda nella direzione in cui il reticolato andava più in alto. Quando salì di altri sei riquadri, sentì con le mani di essere arrivato all’asta che era stata aggiunta la primavera precedente. Era sicuramente più solida delle altre, non così esili. Penzoloni con le gambe, poteva sostenersi solo con le braccia. Guardò in basso e percepì la vertigine come un piacere. Sotto di lui c’erano le aiuole circolari delle pratoline che aveva evitato di calpestare per non lasciare tracce. La parete dietro il caprifoglio era fredda, coperta dal verde come lo era stata tutto il giorno. I fiori stessi erano freschi e, in un certo senso, in movimento, come lui stesso mentre si arrampicava sempre più in alto. Dei moscerini uscirono dalle foglie e si posarono sul viso e sui polpacci senza che lui potesse fare nulla per cacciarli. Ora, il profumo del caprifoglio lo avvolgeva, ondate di profumo che lo trascinavano e lo imprigionavano. Pensò di nuovo ai pesci nella rete: vi sono entrati come per incantesimo, senza sospettare nulla, poi si sono sentiti circondati da qualcosa e volevano scappare. Poi le branchie scorrevano lungo le maglie della rete che si stringeva. Doveva essere proprio così. Il reticolato verde davanti a lui e sotto di lui e al di sopra delle sue ani che afferravano il reticolato divenne come una rete. Non riusciva a liberarsi? Bene – lo avevano catturato. Era imprigionato in quella rete di caprifoglio, in un profumo sul quale si adagiava e dal quale non riusciva a liberarsi. Il piacere aumentava in lui e si estendeva dai centri dell’olfatto fino alla pelle e sul corpo; ora lo sapeva: il profumo del caprifoglio si poteva avvertire con le mani e con le ginocchia. Riusciva a sentire l’odore con tutto il corpo e percepire il profumo del caprifoglio che si avvinghiava con dolcezza ai muscoli, sotto la pelle e serrarsi in un felice crampo. Questa era angoscia i autocontrollo allo stesso tempo, inafferrabile profumo e dolce contatto, vertigine e attesa della caduta contemporaneamente con la sicurezza di essere sostenuto. Sapeva che poteva adagiarsi sulle spalle e riposare su quell’oscuro profumo di caprifoglio e forse essere trasportato via al di sopra dei tigli. Egli era dentro il mistero. Da lassù guardò di nuovo in basso il giardino, così lontano, poi le alte case, proprio sotto il tetto bassissimo; e aumentava la spinta verso quel volo. I grandi alberi erano suoi colleghi e amici, quelli più piccoli erano sottomessi. Si sentiva un vincitore sull’orlo di una sconfitta alla quale aspirava. Poi delle voci dal basso, dal giardino, urlavano e altre rispondevano dalla casa. L’incantesimo era rotto.

Il ragazzo rimane incollato alla parete e ascolta. Stanno chiamando lui. Ora la voce cambia posto. Qualcuno risponde dalla finestra: no, non è dentro. Contemporaneamente voci di ragazzi provengono dal basso, quelli che sono stati al mare. No, non era neanche lì.

Il ragazzo ascolta i passi allontanarsi. Agile come una scimmia si arrampica per altri quattro riquadri, verso l’alto, obliquamente. Ora è proprio sotto la grondaia e può salvarsi con un disperato slancio oltre la sporgenza sotto la veranda e poi su e infine dentro. Si affaccia qualcuno sulla veranda: è una voce profonda, quella voce di cui ha paura. Si spinge dentro il caprifoglio dove è più rigoglioso e le piante, quelle più in alto che ricadono pendenti, lo nascondono. La voce profonda si allontana dalla veranda. Ma sente un’altra voce provenire dal basso, la voce limpida, quella di cui si vergogna ogni volta che compie qualcosa di sbagliato. Con una presa riunisce alcuni rami sotto di è e si spinge ancora più dentro al verde. Resta in assoluto silenzio sul reticolato all’altezza del primo piano. Ma ora ha la barchetta di un fiore di caprifoglio proprio sotto al naso: i rematori sono ritti sull’oscillante rosso pallido della gondola e si avvicinano al suo viso e diventano grandi come uomini ritti in una barca. Il profumo del fiore non scorre più lungo braccia e gambe e non concentra la sua dolcezza sulla pelle del suo corpo. Si inspira nel naso e lo stordisce direttamente e completamente: non sa più dove si trova. I taglienti bordi dei riquadri, attraverso le consunte scarpe da ginnastica, fanno dolorare i piedi e le mani sopra la sua testa. Ma non riesce a liberarsi; e ora – mentre sa che uno sguardo dal basso è fisso su quella parete – avviene una trasformazione in lui: diventa caprifoglio. Così intenso è il suo desiderio di diventare una cosa sola con le piante, così dominante è il profumo che lo avvelena e cambia la condizione da “dolore” a “pericolo”, che percepisce come un obbligo il girare la testa per bagnare il collo nella freschezza dei fiori. Ma non deve voltare la testa, perché non ha la forza di ascoltare la costernazione delusa della voce limpida e di tutto quello che segue. Non riesce a capire che sta lì come un insetto e il perché continua ad arrampicarsi lassù. Poi quella fugace sorpresa passa, ed è di nuovo caprifoglio – e questa volta, totalmente – perché il dolore alle mani e ai piedi finisce nell’impercettibile. Non prova neanche più la stanchezza, può rimanere lì, in quella posizione di arrampicata per sempre, ora; è ha la sensazione di essere sempre stato lì. Il profumo del caprifoglio lo ha inebetito, cosicché la realtà scivola via e si allontana. Ora, non conosce il “pericolo”. No, è la rete in cui è entrato, la rete di caprifoglio che lo sta imprigionando. E non potrà mai liberarsi dalla sua metamorfosi. La voce limpida nel giardino muore in lontananza. È andata via oppure è perché tutto è finito – in quella parte di mondo!? Oppure non è mai esistito? È sempre stato caprifoglio, ma di tanto in tanto – per brevi attimi – sull’orlo di diventare essere umano?…

È avvenuto un cambiamento nella luce. La villa ha assunto una tonalità azzurra come quella della sera. L’alone dorato è sfiorato dalle chiome dei tigli che, semplicemente, oscillano sotto una brezza che impercettibile scivola fino a terra. E gli uomini sono rientrati! Non lo cercano più lì: grazie a Dio!, e comunque il ragazzo non è tra i caprifogli. Le aiuole di pratoline circondano il basamento della casa in graziosi e precisi archi. Nella casa c’è movimento di adulti e giovani. Una radio preannuncia il tempo di domani. Il sibilo della rondine di mare fende l’aria del mare. Il fanciullo ciondola avvinghiato al reticolato. I piedi sono scivolati dentro al reticolato, intrappolati tra questo e la parete della casa, fino ai popliti insanguinati. Le mani legate saldamente un po’ più in alto sulla testa, in una presa che non si può sciogliere. Il corpo pende in preda ai crampi tra questi quattro punti saldi, crocefisso con la schiena verso l’esterno. Due fiori di caprifoglio si sono infilati dentro le sue narici e riempiono tutto il suo sistema nervoso con un profumo narcotizzante. Sente il dolore, vuole liberarsi, ma non ha più le forze. La rete a maglie si è stretta intorno al pesce e non da’ via di scampo. Conosce la situazione, ma non la comprende. Comincia a piovere, le foglie di caprifoglio crepitano sotto il ticchettare delle gocce e i suoi fiori si raccolgono in una nuova ondata di profumo in quella notte di estate.

Qualcuno apre una finestra, proprio sotto di lui, un po’ di sbieco. È la voce profonda che dice che piove ed esclama: «Oh Senti che profumo di caprifoglio!». La voce limpida nella stanza è irrequieta e non riesce a capire perché il ragazzo non è rientrato: «E per di più piove», e subito dopo: «Chiudi la finestra, sii gentile. Il profumo dei caprifogli stordisce non poco».

Ora, la pioggia scroscia intorno a lui. È acqua. Egli è il pesce imprigionato in una rete di profumi. Percepisce una forte e tranquilla solitudine che ha sempre intuito: a intuito che la solitudine è come un anello invisibile che circonda gli uomini, ma che questi si danno da fare per non conoscerla e fanno come se non ci fosse, per timore che nessuno venga in aiuto. Nessuno può aiutarlo, qui dove si trova legato, in alto, su una parete della villa, mentre tutti i suoi cari si trovano in casa. E ora sa anche che cosa è quel profumo: non è né “dolore” né “pericolo”, quella è “solitudine”. Lo deve ben sapere la mosca prima di cadere nella ragnatela. È così che ci si sente quando non c’è più via di scampo. Tutti. Sotto il fardello della sua spossatezza capisce tutto ciò. Non è più caprifoglio. Non più pesce. Egli è tutti. Egli possiede la conoscenza di tutti sull’infinito e sulla sua impotenza. Percepisce questa nuova esperienza come una conferma di quello che ha sempre dovuto sapere: primo, un vertiginoso piacere al limite con l’angoscia che è propria del corpo; secondo, un abbandono senza confini che è dello spirito. E mentre questo diventa chiaro per lui, spunta la luna. La pioggia è finita. La luna riveste d’argento le fronde dei tigli e mette un tocco di verde-argento sugli alberi sotto di lui nel giardino. La sua testa ricade all’indietro per la stanchezza e, per un attimo, osserva il cielo che è pallido con due stelle come capocchie di spillo. In quell’istante comincia a capire qualcosa sulla posizione rischiosa dell’essere umano nella totalità.

Poi è la voce profonda proprio sopra di lui sulla veranda: « Non capisco dove si sia cacciato il ragazzo!» Irrequietudine e irritazione, uno sguardo rassegnato lungo i prati umidi che sprizzano argento al chiaro di luna. E finalmente uno sguardo proprio sotto di lui, in direzione del caprifoglio. E un urlo atterrito, e poi ancora, voci profonde, dal basso. Una scala a pioli viene issata. Voci si avvicinano. Voci su di lui e intorno a lui. E aria fresca, aria senza odori! Domande e un cauto zittire. E la coscienza che lentamente ritorna, si chiude in sé fino a comprendere tutti, dai fiori, ai pesci, all’acqua, a un fanciullo in un letto che si sveglia dopo la febbre e intuisce la sua solitudine.

© trad. Annalisa Maurantonio

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